Si può ritenere abusiva, quindi inefficace, la clausola compromissoria inserita nei contratti con il consumatore, poiché affetta da nullità di protezione a tutela della sua posizione di debolezza contrattuale rispetto a quella del professionista?
Le clausole vessatorie nel contratto.
L’analisi deve muovere dal nucleo delle condizioni generali di contratto, tra le quali il legislatore ne ha individuate alcune, c.d. vessatorie, da sottoporre ad una disciplina riservata.
Esse sono elencate nell’articolo 1341, comma 2, del codice civile e la loro presenza impone una approvazione specifica per iscritto.
Tra queste figurano le clausole compromissorie, cioè quelle che devolvono l’eventuale controversia ad un arbitro, nonché le clausole che comportano deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria; questa in particolare suscita fondati dubbi sulla sua applicabilità anche all’arbitrato irrituale.
Questa disciplina attribuisce alla parte debole una tutela di carattere eminentemente formale, richiamando l’attenzione del contraente non predisponente, obbligando ad una seconda firma da apporre in calce al contratto.
Il Codice del Consumo.
Al fine di garantire una protezione sostanziale ed una reale facoltà di scelta, il Codice del Consumo (decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206), attuando la direttiva europea 13/93 relativa proprio alle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ha inserito nel nostro ordinamento una serie di ulteriori tutele.
Codice civile e Codice del Consumo.
Ponendo a raffronto le due discipline, europea e nazionale, non si può non notare che le norme di cui agli articoli 1341 e 1342 del codice civile siano più ampie, facendo esse riferimento ad una platea di destinatari più vasta: in ipotesi anche al professionista che non predispone le condizioni generali di contratto.
Le norme consumeristiche, invece, richiedono che dinanzi al professionista vi sia una “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
L’applicazione congiunta delle norme codicistiche in tema di condizioni generali e di quelle del Codice consumeristiche richiederebbe, pertanto, che il contratto sia concluso tra un professionista ed un consumatore in cui, oltretutto, compaiano clausole vessatorie unilateralmente predisposte dal primo.
La soluzione è…
Posto il campo di applicazione soggettivo della normativa di protezione, quale può essere la soluzione più idonea al quesito iniziale?
In ambito europeo, la direttiva 93/13 menziona fra le clausole indicativamente abusive quelle che hanno ad oggetto o per effetto di “sopprimere o limitare l’esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore, in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente a una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni giuridiche, limitando indebitamente i mezzi di prova a disposizione del consumatore o imponendogli un onere della prova che, ai sensi della legislazione applicabile, incomberebbe a un’altra parte del contratto”.
L’articolo 33, comma 2, lett. t) del Codice del Consumo menziona tra le clausole presuntivamente vessatorie, quelle che sanciscono a carico del consumatore “decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi”.
È dunque evidente che la normativa europea non esprime un netto disvalore per l’arbitrato, ma solamente per quello non disciplinato da disposizioni giuridiche, mentre la normativa italiana non menziona espressamente l’arbitrato.
Diverse possibili soluzioni interpretative.
La richiamata deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria quale presupposto della presunzione di vessatorietà, di cui all’art. 33, comma 2, lett. t) del Codice del Consumo, può essere variamente intesa in dipendenza del significato che si vuole assegnare alla clausola compromissoria.
In effetti, almeno per quanto attiene all’arbitrato rituale, sembrerebbe proprio che la clausola non possa non ricomprendersi nella lettera in esame, stante il principio riconosciuto dalla Suprema Corte per cui l’attività degli arbitri rituali ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza (ex plurimis, Cass., 13 marzo 2019, n. 7198).
Del resto, per una migliore comprensione ed analisi della questione, occorre considerare in una interpretazione globalmente intesa di natura sistematica, anche l’art. 141 del Codice del Consumo, in particolare il comma 10, ai sensi del quale il “consumatore non può essere privato in nessun caso del diritto di adire il giudice competente qualunque sia l’esito della procedura di composizione extragiudiziale”.
Ebbene, appare comunque complicato riferire tale prescrizione all’arbitrato rituale, in considerazione di quanto disposto dall’art. 824 bis c.c., ai sensi del quale “salvo, quanto disposto dall’articolo 825, il lodo ha dalla data della sua sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”, nonché della possibilità di impugnarlo in conformità alle prescrizioni del capo V del Titolo VIII riservato all’arbitrato.
Interviene la Cassazione.
Fondamentale sul punto, in quanto emblematica dell’interpretazione sposata dalla Suprema Corte di Cassazione sulla efficacia della clausola compromissoria in materia consumeristica, è la recentissima ordinanza della sezione VI, 14 gennaio 2021, n. 497.
Quando viene concluso un contratto per esigenze personali, viene in rilievo la qualità di consumatore ai sensi del Codice del Consumo: ciò che rileva ai fini della tutela del consumatore è la mera conclusione di un contratto tra un professionista, che stipuli nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, o di professionista intellettuale, ed altro soggetto – il consumatore – che contragga per esigenze estranee all’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale.
In tale ambito diventano applicabili le seguenti norme, tutte riferibili sempre al Codice del Consumo:
– l’art. 33, comma 1, il quale reputa vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto;
– l’art. 33, comma 2, lett. t), il quale dispone che si presumono vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che sanciscono a carico del consumatore deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, ivi incluse, le clausole compromissorie per arbitrato rituale;
– l’ art. 34, ai sensi del quale il carattere di vessatorietà non riguarda la determinazione dell’oggetto del contratto o la valutazione di adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.
Non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale. Nel contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera, uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe sul professionista l’onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore.
La Corte di Cassazione sostiene quindi che in presenza di un contratto rientrante nell’ambito applicativo del Codice del Consumo, l’avvenuta negoziazione delle singole clausole costituisce presupposto oggettivo di esclusione dell’applicazione della disciplina del Codice ed è circostanza che rappresenta un prius logico anche rispetto all’accertamento dell’eventuale squilibrio di cui si sostanzia l’abusività, conseguendone che la relativa prova compete al professionista, mentre il consumatore può limitarsi ad allegare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti sufficienti per ottenere la dichiarazione di inefficacia delle clausole stesse.
Dare prova della trattativa.
In particolare, al fine di ottenere la disapplicazione della disciplina di tutela del consumatore, occorre dare la prova del fatto positivo dello svolgimento della trattativa, non essendo configurabile un onere del consumatore di provare il fatto negativo della mancanza di negoziazione. Non sarebbe nemmeno sufficiente l’attestazione generica che le parti abbiano negoziato le singole clausole nella considerazione delle reciproche concessioni operate in sede di fissazione delle altre clausole, se non vi è alcun elemento utile a dimostrare che il consumatore abbia effettivamente esercitato un potere negoziale in modo non solo formale, ovvero abbia avuto una qualche possibilità di modificare il contenuto del contratto o non siano riportati gli elementi utili a comprendere in che termini sia stata contrattata la deroga alla competenza del giudice ordinario.
In conclusione.
Pertanto, in conclusione, la clausola compromissoria inserita nei contratti del consumatore, è da considerarsi valida ed efficace qualora sia il frutto di una trattativa caratterizzata dai requisiti della serietà (ossia svolta mediante l’adozione di un comportamento obiettivamente idoneo a raggiungere il risultato di una composizione dei contrapposti interessi delle parti), della effettività (rispettosa dell’autonomia privata delle parti, non solo nel senso di libertà di concludere il contratto ma anche nel suo significato di libertà e concreta possibilità di determinarne il contenuto) e della individualità (dovendo riguardare tutte le clausole, o elementi di clausola, costituenti il contenuto dell’accordo, prese in considerazione sia singolarmente, oltre che nel significato desumibile dal complessivo tenore del contratto).
Le considerazioni che precedono, quindi, costituiscono valide linee guida affinché anche nei rapporti tra consumatori e professionisti possa applicarsi, con positivi effetti, la procedura arbitrale.
ha collaborato Luca Carioti